«Mai prima di allora il vino era entrato in quella casa. E ora eccolo qui, nel bicchiere che andava dalla signora Mitwisser, e in quello che veniva posato davanti al piatto del professor Mitwisser, e nel mio. Non lo avevo mai assaggiato, il vino, e nulla sapevo della sua squisitezza, se ne aveva; ma quando Mitwisser si portò il bicchiere prima alle narici e poi alle labbra con una svagata, quasi sognante concentrazione, fu come se un vento familiare passasse sopra la sua testa, o persino attraverso la sua persona: un vento che veniva da molto lontano, dal passato, da prima che lo buttassero fuori, fuori da quell’Europa che ero giunta a considerare come una densa massa vulcanica nascosta sotto un velo nero che si stava disintegrando. Non sapevo niente dell’Europa, non sapevo niente del vino; credevo oscuramente che fosse in qualche modo nobile, “aristocratico”, l’elisir di …
preti e re. Ma non mi piacque questo vino che Bertram ci aveva portato: era troppo acido, e troppo scuro, come sangue venoso, e puzzava di adescamento, di conciliazione. Bertram era stato lesto a capire di chi era la mano che reggeva lo scettro familiare. Io ero solo la sentinella che lo aveva fatto entrare. Il professor Mitwisser era la maestà che poteva tenerlo o cacciarlo, e per compiacere questo incostante sovrano era necessario accudire la strana invalida dell’ultimo piano. Bertram era un ottimo infermiere. In dieci minuti poteva preparare una poltiglia per una cicatrice che prudeva o un piatto saporito per un appetito ignavo. Il vino rallegrava sia il sovrano che sua moglie. Onorava il sovrano, calmava la moglie.
“Ad Albany,” rammentai a Bertram, “noi non abbiamo mai bevuto vino.” Di rado gli parlavo di quei mesi passati al sicuro in cui era stato il mio salvatore e consolatore. Ma a questo punto mi sentivo astiosa.
“Me lo ha fatto conoscere Ninel.”
Dissi acidamente: “Non pensavo che il Partito approvasse il vino.”
“Be’, Ninel sì, perché no? Contadini italiani, lavoratori francesi, è vino quello che tracannano le masse. Sai, le masse...” E mi fece un sorrisetto, in quella specie di accattivante autoparodia che conoscevo bene.
Un attimo dopo il sorriso sparì, lasciandogli una bocca da cane bastonato. Ogni volta che tra noi deflagrava il nome di Ninel, Betram piombava nella tristezza. Certe volte facevo il nome di Ninel solo per vederlo oscurarsi in viso: queste eccitate intrusioni nel dolore sepolto di Bertram erano la mia vendetta. Volevo scardinare la sua mollezza. Non era per Ninel; Ninel era morta. In questa casa Bertram era, almeno per me, un angelo cattivo: tutta quella disponibilità, quel continuo appello all’armonia, quel desiderio di accontentare tutti, di cancellare ogni pecca... Bertram era troppo liquidamente nobile, come il vino.
Aveva cominciato a fare la spesa. Questo era stato un compito di Anneliese, e successivamente mio. A Bertram piaceva curiosare tra le verdure, e nelle grotte buie delle botteghe sotto il traliccio: diceva che gli facevano venire delle idee. Lo accompagnava Waltraut, spingendo un passeggino da bambola in vimini. Era stato ritrovato in un mucchio di giocattoli rotti e abbandonati: c’erano tanti di quei giocattoli, una giungla di giocattoli! Il passeggino in vimini era indispensabile: Bertram si chinava per riempirlo con i sacchetti della spesa. La bottiglia di vino - due bottiglie di vino, anzi - se le ficcava in tasca, per avere le mani libere per i fagotti più voluminosi...». (da Eredi di un mondo lucente di Cynthia Ozick)
CYNTHIA OZICK
Eredi di un mondo lucente
Feltrinelli editore 2005
Pagine: 319
Prezzo: 8,50 euro