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GABRIELE D’ANNUNZIO (Pescara, 1863-1938)


          IL DONO DI DIONISO

          E il grappolo più grande
               colsi avidamente,
           che pesava d'ambrosia
              come la mammella
             ineffabile d'una dea
             data all'adolescente
           per gioire e morir quivi.

               Gli acini eran vivi
                                                            d'inesausto calore
                                                          alle mie dita di gelo.

Sentii ne' precordii l'odore

del pampino lacerato
come d'un velo
arcano che si fendesse.
O Vita, quel parvemi il primo...

e l'ultimo tuo dono,
e che i miei giovini denti
mai polpa d'opimo
frutto avesser morso
né mai bevuto agreste
sorso le mie labbra sanguigne.
L'odore di tutte le vigne
sentii ne' precordii capaci
e di tutti i mosti il sapore,
ebbi le vendemmie spumanti
di tutti gli autunni feraci
nel cuore, e le feste e i canti
l'urto dei piè danzanti il suono
dei flauti frigi, e Lesbo
rossa di faci pel natale
del vino e l'onda corale
e il passo del lidio coturno,
o Vita, quando la mia bocca
vergine di baci
diedi al tuo grappolo notturno.


CON IL FIOR DE LA BOCCA UMIDA A BERE

Con il fior de la bocca umida a bere
ella attinge il cristallo. Io lentamente
le verso a stille il vin dolce ed ardente
entro quel rosso fiore de ‘l piacere;
e chinato su lei, muto coppiere,
guardo le forme dilettosamente:
la sua testa d’Ermète adolescente
e la sagliente spira de ‘l bicchiere.
Or, poi che le pupille a l’amorosa
concordia de le due forme stupende
io solo, io solo, io solo ho dilettate,
godo infranger la coppa preziosa;
e improvviso un desìo vano mi prende
d’infranger le membra bene amate.


VINCENZO CARDARELLI (Corneto Tarquinia-Viterbo, 1887-1959)

OTTOBRE

Un tempo, era d'estate,
era a quel fuoco, a quegli ardori,
che si destava la mia fantasia.
Inclino adesso all'autunno
dal colore che inebria,
amo la stanca stagione
che ha già vendemmiato.
Niente più mi somiglia,
nulla più mi consola,
di quest'aria che odora
di mosto e di vino,
di questo vecchio sole ottobrino
che splende sulla vigne saccheggiate.

Sole d'autunno inatteso,
che splendi come in un di là,
con tenera perdizione
ùe vagabonda felicità,
tu ci trovi fiaccati,
vòlti al peggio e la morte nell'anima.
Ecco perché ci piaci,
vago sole superstite
che non sai dirci addio,
tornando ogni mattina
come un nuovo miracolo,
tanto più bello quanto più t'inoltri
e sei lì per spirare.
E di queste incredibili giornate
vai componendo la tua stagione
ch'è tutta una dolcissima agonia.


UMBERTO SABA (Trieste, 1883-1957)

ED AMAI NUOVAMENTE

Ed amai nuovamente; e fu di Lina
dal rosso scialle il più della mia vita.
Quella che cresce accanto a noi, bambina
dagli occhi azzurri, è dal suo grembo uscita.

Trieste è la città, la donna è Lina,
per cui scrissi il mio libro di più ardita
sincerità; né dalla sua fu fin ad oggi mai l'anima partita.

Ogni altro conobbi umano amore;
ma per Lina torrei di nuovo un'altra
vita, di nuovo vorrei cominciare.

Per l'altezze l'amai del suo dolore;
perché tutto fu al mondo, e non mai scaltra,
e tutto seppe, e non se stessa, amare.


SERGIO SOLMI (Rieti, 1889-1981)

A UN BICCHIER DI VINO DI FRASCATI

Altri si pasca dell’odor dei frutti
in riva al grande fiume. Accende i miei
stanchi pensieri ancor più lieve fuoco.
Calmo sole terrestre, dentro il chiaro
cristallo dissepolto, oro mutevole,
giorno che mai s’oscura,
ecco tu mi riscatti dalla tarda
umiltà di mia vita, dalle gioie
vinte del pigro sonno, dalla nera
prigionia del mio sangue. Mi ridici
il tempo perso e il colorito antico
della mia fanciullezza. Mi ricanti
la tua antica ragione, fatta musica.


CESARE PAVESE (Santo Stefano Belbo-Cuneo, 1908-1950)

IL VENTO TRISTE

La fatica è sedersi senza farsi notare.
Tutto il resto poi viene da sé. Tre sorsate
e ritorna la voglia di pensarci da solo.
Si spalanca uno sfondo di lontani ronzii,
ogni cosa si sperde, e diventa un miracolo
esser nato e guardare il bicchiere. Il lavoro
(l'uomo solo non può non pensare al lavoro)
ridiventa l'antico destino che è bello soffrire
per poterci pensare. Poi gli occhi si fissano
a mezz'aria, dolenti, come fossero ciechi.

Se quest'uomo si rialza e va a casa a dormire,
pare un cieco che ha perso la strada. Chiunque
può sbucare da un angolo e pestarlo di colpi.
Può sbucare una donna e distendersi in strada,
bella e giovane, sotto un altr'uomo, gemendo
come un tempo una donna gemeva con lui.
Ma quest'uomo non vede. Va a casa a dormire
e la vita non è che un ronzio di silenzio.

A spogliarlo, quest'uomo, si trovano membra sfinite
e del pelo brutale, qua e là. Chi direbbe
che in quest'uomo trascorrono tiepide vene
dove un tempo la vita bruciava? Nessuno
crederebbe che un tempo una donna abbia fatto carezze
su quel corpo e baciato quel corpo, che trema,
e bagnato di lacrime, adesso che l'uomo
giunto a casa a dormire, non riesce, ma geme.

PAESAGGIO II

La collina biancheggia alle stelle, di terra scoperta;
si vedrebbero i ladri, lassù. Tra le ripe del fondo
i filari son tutti nell'ombra. Lassù che ce n'è
e che è terra di chi non patisce, non sale nessuno:
qui nell'umidità, con la scusa di andare a tartufi,
entran dentro alla vigna e saccheggiano le uve.
Il mio vecchio ha trovato due graspi buttati
Tra le piante e stanotte borbotta. La vigna è già scarsa:
giorno e notte nell'umidità, non ci viene che foglie.
Tra le piante si vedono al cielo le terre scoperte
che di giorno gli rubano il sole. Lassù brucia il sole
tutto il giorno e la terra è calcina: si vede anche al buio.
Là non vengono foglie, la forza va tutta nell'uva.
Il mio vecchio appoggiato a un bastone nell'erba bagnata,
ha la mano convulsa: se vengono i ladri stanotte,
salta in mezzo ai filari e gli fiacca la schiena.
Sono gente da farle un servizio da bestie,
ché non vanno a contarla. Ogni tanto alza il capo
annusando nell'aria: gli pare che arrivi nel buio
una punta d'odore terroso, tartufi scavati.
Sulle coste lassù, che si stendono al cielo,
non c'è l'uggia degli alberi: l'uva strascina per terra,
tanto pesa. Nessuno può starci nascosto:
si distinguono in cima le macchie degli alberi
neri e radi. Se avessero la vigna lassù,
il mio vecchio farebbe la guardia da casa, nel letto,
col fucile puntato. Qui, al fondo, nemmeno il fucile
non gli serve, perché dentro il buio non c'è che fogliami.


LA TERRA E LA MORTE

Anche tu sei collina
e sentiero di sassi
e gioco nei canneti,
e conosci la vigna
che di notte tace.
Tu non dici parole.

C'è una terra che tace
e non è terra tua.
C'è un silenzio che dura
sulle piante e sui colli.
Ci son acque e campagne.
Sei un chiuso silenzio
che non cede, sei labbra
e occhi bui. Sei la vigna.

E' una terra che attende
e non dice parola.
Sono passati giorni
sotto cieli ardenti.
Tu hai giocato alle nubi.
E' una terra cattiva -
la tua fronte lo sa.
Anche questo è la vigna.

Ritroverai le nubi
e il canneto, e le voci
come un'ombra di luna.
Ritroverai parole
oltre la vita breve
e notturna dei giochi,
oltre l'infanzia accesa.
Sarà dolce tacere.
Sei la terra e la vigna.
Un acceso silenzio
brucerà la campagna
come i falò la sera.
(da La terra e la morte)

 


EUGENIO MONTALE (Genova, 1896-1981)


BIBE A PONTE ALL’ASSE

Bibe, ospite lieve, la bruna tua reginetta di Saba
mesce sorrisi e Rufina di quattordici gradi.
Si vede in basso rilucere la terra fra gli aceri radi
e un bimbo curva la canna sul gomito della Greve.

 

 

GIORGIO CAPRONI (Livorno, 1912-1990)

BORGORATTI

Anche le vampe fiorite
ai balconi di questo paese,
labile memoria ormai
dimentica la sera.

Come un'allegoria,
una fanciulla appare
sulla porta dell'osteria.
Alle sue spalle è un vociare
confuso d'uomini – e l'aspro
odor del vino.

 


PIERO BIGONGIARI (Novacchio-Pisa, 1914-1997)

 

LE TUE LABBRA

Le tue labbra di crosta hanno baciato il fuoco, 
o splendore dei fulmini scosceso
nell'imo minerale della terra:
non e' un giuoco qui vederti, inatteso tragico chiarore
che dire giorno e' tentare di accendere con due pietre le foglie secche
che il vento, se non stai attento, sparpaglia
quand'ecco, inatteso tra le ciglia accese e spente del mare,
il tuo sguardo acciarino, e bagna il fuoco
d'un nero porporino.
Oh non lasciarti amare
che da un altro elemento. Obliamo nel tuo vino.

 

 

ALDA MERINI (Milano, 1931-2009)

 

SETE PERENNE

Vino, gagliardo come la dea ragione.
In te l’idea si fa suono e
si colora il Mito.
Appaiono vestali tinte di giada,
il periplo del canto si snoda in
veli che ricordano l’anima.
O vino che canti il mio dolore,
vino che sei il precipizio estremo,
vino che dai l’illusione della morte e
fai solo dormire
fino al nuovo dolore.


LE OSTERIE
A me piacciono gli anfratti bui
delle osterie dormienti,
dove la gente culmina nell'eccesso del canto,
a me piacciono le cose bestemmiate e leggere,
e i calici di vino profondi,
dove la mente esulta,
livello magico di pensiero.
troppo sciocco è piangere sopra un amore perduto
malvissuto e scostante,
magico l'acre sapore del vino
indenne,
meglio l'ubriacatura del genio,
meglio sì meglio
l'indagine sorda delle scorrevolezze di vite;
io amo le osterie
che parlano il linguaggio sottile
della lingua di Bacco,
e poi nelle osterie
ci sta il nome di Charles
scritto a caratteri d'oro.

(Selezione di Vino Arte Poesia)

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